Mi è tornato in mente che otto anni fa, più o meno di questi tempi, stavo tentando disperatamente di far capire ai miei colleghi di oltreoceano che tutta l'area di Tor Vergata sarebbe stata chiusa nei giorni a cavallo del primo maggio, causa giubileo e concertone, e che quindi avrei avuto bisogno di un permesso speciale per poter accedere all'Università ("What do you mean, the Pope is kicking you out of campus?"). Collaboravo a un esperimento che si chiamava MAXIMA (vi risparmio l'acronimo), eravamo pochi e quasi tutti a Berkeley (cioè, io ero tornato a Roma — non da molto però — da cui le difficoltà logistiche che dicevo). A ripensarci adesso sembra impossibile, ma eravamo proprio pochi, davvero. Il nostro fratello maggiore, BOOMERANG (acronimo ancora peggiore), si prese la copertina di Nature il 27 aprile e, a ruota, le prime pagine dei quotidiani. Ma soprattutto ebbe l'onore di una vignetta di Massimo Bucchi (un genio), che ironizzava sull'entusiasmo degli italiani alla notizia che l'universo è "piatto" (c'erano un piatto e un tizio armato di coltello e forchetta pronto a riempirsi la pancia: conservo ancora il ritaglio).
E insomma, misure di sicurezza romane permettendo, dovevamo finire un paio di articoli e li finimmo. Uscirono una decina di giorni dopo (su arXiv; per vederli pubblicati su The Astrophysical Journal Letters ci volle ancora qualche mese). Eravamo il fratello minore, ma io ero contento così. Più di tutto, ricordo l'eccitazione e la fatica dei mesi precedenti, a Berkeley, e la sensazione provata nel veder emergere lentamente, sullo schermo di un computer, un'immagine dell'universo appena nato — un'immagine che nessuno aveva mai visto prima così nitida a parte noi, che eravamo proprio pochi. Per chi pensa che ci sia qualche valore in questa assurda e spesso frustrante impresa di capire e apprezzare il mondo per quello che è, non può andare meglio di così.