Uno degli argomenti che mi trovo ripetutamente a mettere in discussione è quello secondo cui, dato che nella nostra galassia ci sono centinaia di miliardi di stelle, la probabilità di trovare altre forme di vita fuori della Terra sarebbe molto alta. Non è necessariamente vero: è una fallacia statistica, perché non sappiamo a priori quale sia la probabilità dell'origine della vita (abbiamo un solo caso di studio, la Terra) e perché ci sono correlazioni non banali tra alcune variabili in gioco: per esempio proprio tra il numero di stelle di sequenza principale nella galassia e il tempo trascorso dal big bang, tempo che a sua volta è sicuramente correlato con quello necessario all'origine della vita, anche se non sappiamo dettagliatamente come (basti pensare al fatto che la vita come la conosciamo ha bisogno di carbonio, che non appare nell'universo fino a quando non viene prodotto all'interno delle stelle).
Un altro argomento fallace, ma spesso usato acriticamente dagli ottimisti, è quello secondo cui, dal momento che sulla Terra l'origine della vita è stata molto rapida, allora deve esserlo stata anche altrove. Se si affronta correttamente il problema dal punto di vista statistico, come hanno fatto gli autori di questo articolo, si può invece arrivare alla conclusione che il rapido emergere della vita sulla Terra non è incompatibile con una probabilità molto bassa che la vita sia frequente nella galassia.
Lo spettro che aleggia sopra tutte le stime eccessivamente ottimistiche della probabilità che esistano altre forme di vita, è quello "antropico": è infatti ovvio che noi ci troviamo su un pianeta dove la vita ha avuto origine. Ma dobbiamo stare molto attenti a trarre da questo conclusioni affrettate: sarebbe come credere che è facile vincere alla lotteria solo perché noi siamo quelli che hanno comprato il biglietto vincente.
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David S. Spiegel & Edwin L. Turner (2011). Life might be rare despite its early emergence on Earth: a Bayesian analysis of the probability of abiogenesis submitted to PNAS arXiv: 1107.3835v1
25 luglio 2011
21 luglio 2011
Robot curiosi
Facciamocene una ragione: lo sbarco di un equipaggio umano su Marte non è qualcosa che vedremo molto presto. Ma l'esplorazione del pianeta rosso va avanti alla grande, grazie a missioni robotizzate che sono capolavori di ingegneria. E adesso che il realismo dei filmati promozionali ha raggiunto livelli da filmone hollywodiano, è facile restare a bocca aperta. Qui c'è quello del prossimo rover marziano, Curiosity. Dovrebbe partire alla fine di quest'anno. (Qui c'è una versione più lunga.)
18 luglio 2011
Scelte obbligate
Uno dei problemi che mi affascina di più (non come argomento di ricerca, sia chiaro, ma come curiosità intellettuale) è quello del libero arbitrio (e a quanto pare non sono l'unico). Lo si può riformulare in molti modi diversi, ma in ultima analisi quello che mi pare mostri meglio l'aspetto paradossale della faccenda è: se l'universo è retto da leggi deterministiche, come mai abbiamo la sensazione di poter intervenire nel suo andamento? Facciamo parte noi stessi dell'universo, e non possiamo eludere le leggi della fisica. Siamo, in ultima analisi, un insieme di particelle, per quanto incredibilmente complesso; e il nostro stato attuale, in linea di principio, potrebbe essere calcolato a partire da condizioni iniziali arbitrariamente lontane nel passato. Cosa ci rende diversi da una galassia? Siamo anche noi, come qualunque altro sistema fisico, espressione di processi su cui non abbiamo possibilità di intervento, e il fatto di poterli governare è solo illusorio?
La riflessione su questi temi è talmente lunga e complessa che non proverò nemmeno a sintetizzarla qui: semplicemente non ne sarei capace. Ci sono in ballo moltissime sottigliezze, come la differenza tra determinismo e predicibilità (le leggi della fisica sono deterministiche, sì, anche quelle della meccanica quantistica, ma questo non significa che siamo sempre in grado di prevedere esattamente l'evoluzione di sistemi fisici arbitrari), la disputa tra riduzionismo e emergentismo; e naturalmente c'è sempre in agguato la scappatoia extra-naturalistica, secondo cui non saremmo completamente riducibili, nemmeno in linea di principio, alle leggi della fisica: scappatoia da cui uno che voglia provare a capire veramente come funzionano le cose deve tenersi alla larga. Comunque, per assaggiare la complessità della cosa, basta farsi trasportare dalle libere associazioni, partendo da un punto di partenza a caso: per esempio da questa voce di Wikipedia, che riassume i motivi per cui tanto il determinismo che l'indeterminismo, per opposte ragioni, escluderebbero la possibilità del libero arbitrio.
Naturalmente, ognuno tenderà a incaponirsi sui dilemmi della sua disciplina di riferimento: per un neuroscienziato, per esempio, la cosa interessante sarà investigare la coscienza, cercando di capire se in fondo quelle che il nostro cervello ci propina sono solo rappresentazioni di una realtà che si dipana indipendentemente da noi (come i fotogrammi di un film che persistono sulla retina) o se siamo genuinamente in grado di prendere decisioni che cambiano il corso delle cose.
A me, come cosmologo, interessano soprattutto due questioni: una, è se riavvolgendo il film dell'universo e partendo esattamente dalle stesse condizioni iniziali (enfasi su esattamente, che significa con precisione infinita) l'universo possa arrivare a un esito diverso: tenderei a dire di no. L'altra è la questione del tempo in relatività, e dell'impossibilità di stabilire la simultaneità degli eventi in modo assoluto: il mio futuro può essere il passato di qualcun altro, il che sembra non lasciare molto spazio all'idea di un futuro "flessibile". Il tempo sarebbe un blocco unico e se potessimo guardarlo tutto insieme ci renderemmo conto di essere cristallizzati come insetti nell'ambra (ma c'è dibattito anche su questo).
È ovvio che la risposta a tutte queste domande non la conosce nessuno. Ma pensarci è un buon esercizio speculativo. E comunque, forse non abbiamo altra scelta.
La riflessione su questi temi è talmente lunga e complessa che non proverò nemmeno a sintetizzarla qui: semplicemente non ne sarei capace. Ci sono in ballo moltissime sottigliezze, come la differenza tra determinismo e predicibilità (le leggi della fisica sono deterministiche, sì, anche quelle della meccanica quantistica, ma questo non significa che siamo sempre in grado di prevedere esattamente l'evoluzione di sistemi fisici arbitrari), la disputa tra riduzionismo e emergentismo; e naturalmente c'è sempre in agguato la scappatoia extra-naturalistica, secondo cui non saremmo completamente riducibili, nemmeno in linea di principio, alle leggi della fisica: scappatoia da cui uno che voglia provare a capire veramente come funzionano le cose deve tenersi alla larga. Comunque, per assaggiare la complessità della cosa, basta farsi trasportare dalle libere associazioni, partendo da un punto di partenza a caso: per esempio da questa voce di Wikipedia, che riassume i motivi per cui tanto il determinismo che l'indeterminismo, per opposte ragioni, escluderebbero la possibilità del libero arbitrio.
Naturalmente, ognuno tenderà a incaponirsi sui dilemmi della sua disciplina di riferimento: per un neuroscienziato, per esempio, la cosa interessante sarà investigare la coscienza, cercando di capire se in fondo quelle che il nostro cervello ci propina sono solo rappresentazioni di una realtà che si dipana indipendentemente da noi (come i fotogrammi di un film che persistono sulla retina) o se siamo genuinamente in grado di prendere decisioni che cambiano il corso delle cose.
A me, come cosmologo, interessano soprattutto due questioni: una, è se riavvolgendo il film dell'universo e partendo esattamente dalle stesse condizioni iniziali (enfasi su esattamente, che significa con precisione infinita) l'universo possa arrivare a un esito diverso: tenderei a dire di no. L'altra è la questione del tempo in relatività, e dell'impossibilità di stabilire la simultaneità degli eventi in modo assoluto: il mio futuro può essere il passato di qualcun altro, il che sembra non lasciare molto spazio all'idea di un futuro "flessibile". Il tempo sarebbe un blocco unico e se potessimo guardarlo tutto insieme ci renderemmo conto di essere cristallizzati come insetti nell'ambra (ma c'è dibattito anche su questo).
È ovvio che la risposta a tutte queste domande non la conosce nessuno. Ma pensarci è un buon esercizio speculativo. E comunque, forse non abbiamo altra scelta.
13 luglio 2011
Chi ha scoperto l'espansione dell'universo?
Chi ha scoperto l'espansione dell'universo? La domanda è per certi versi oziosa, dal momento che nella scienza il progresso di solito avviene in modo piuttosto confuso e i contributi decisivi sono condivisi tra più di uno scienziato. Resta il fatto che, se non altro per esigenze di semplificazione, quando si racconta la storia della cosmologia moderna una risposta bisogna pur darla.
Quello che è certo è che la scoperta dell'espansione dell'universo non è da attribuire a Edwin Hubble. Negli anni Venti del secolo scorso, l'astronomo americano fece due osservazioni fondamentali, a cui viene fatta solitamente risalire la nascita della cosmologia moderna: determinò la distanza della galassia M31 in Andromeda (all'epoca ancora chiamata genericamente "nebulosa"), e stabilì che esisteva una relazione lineare tra la velocità di allontanamento delle galassie e la loro distanza. La prima osservazione sancì l'esistenza di altre galassie oltre alla nostra Via Lattea, dando il via all'astronomia extra-galattica e stabilendo che l'universo era ben più grande di quanto fino ad allora sospettato. La seconda osservazione era puramente empirica: nonostante sia stata usata, in seguito, per supportare i modelli di universo in espansione, non "scopriva" l'espansione. Nel suo famoso articolo del 1929 (intitolato semplicemente A relation between distance and radial velocity among extra-galactic nebulae Hubble si limita a illustrare le sue osservazioni, lasciando ad altri il compito di interpretarle. In effetti, neanche il fatto che le galassie si allontanavano fu scoperto da Hubble: era noto già dal 1912, sebbene all'epoca non si sapesse che quelle nebulose in movimento fossero altre galassie, esterne alla nostra.
A chi va dato, dunque, il credito dell'idea che l'universo si espande? È difficile dare una risposta secca. Harry Nussbaumer e Lydia Bieri riassumono i punti fermi in questo articolo (che è la sintesi del loro libro Discovering the Expanding Universe), largamente condivisi da chi ha studiato la materia. Ciascuno può provare a farsi un'idea, tenendo presenti tutti i fattori in gioco. Come già sottolineato da Kragh e Smith qualche anno fa (Who discovered the expanding universe?) la risposta finale dipende anche da cosa si intende per scoperta. La persona che per prima sviluppò il necessario modello teorico e interpretò correttamente le osservazioni fu George Lemaitre: da questo punto di vista egli è il candidato più plausibile come scopritore dell'espansione, sebbene non fu, in termini pratici, colui che fece le osservazioni. (C'è, a margine, il ben noto giallo della sparizione, nella traduzione inglese dell'articolo di Lemaitre, del riferimento a quella che in seguito divenne nota come "costante di Hubble": questione sulle cui cause ci si interroga da anni e che ha dato vita a diverse interpretazioni, di cui potete trovare un paio di esempi qui e qui.)
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Harry Nussbaumer, & Lydia Bieri (2011). Who discovered the expanding universe? arXiv:1107.2281v1
Quello che è certo è che la scoperta dell'espansione dell'universo non è da attribuire a Edwin Hubble. Negli anni Venti del secolo scorso, l'astronomo americano fece due osservazioni fondamentali, a cui viene fatta solitamente risalire la nascita della cosmologia moderna: determinò la distanza della galassia M31 in Andromeda (all'epoca ancora chiamata genericamente "nebulosa"), e stabilì che esisteva una relazione lineare tra la velocità di allontanamento delle galassie e la loro distanza. La prima osservazione sancì l'esistenza di altre galassie oltre alla nostra Via Lattea, dando il via all'astronomia extra-galattica e stabilendo che l'universo era ben più grande di quanto fino ad allora sospettato. La seconda osservazione era puramente empirica: nonostante sia stata usata, in seguito, per supportare i modelli di universo in espansione, non "scopriva" l'espansione. Nel suo famoso articolo del 1929 (intitolato semplicemente A relation between distance and radial velocity among extra-galactic nebulae Hubble si limita a illustrare le sue osservazioni, lasciando ad altri il compito di interpretarle. In effetti, neanche il fatto che le galassie si allontanavano fu scoperto da Hubble: era noto già dal 1912, sebbene all'epoca non si sapesse che quelle nebulose in movimento fossero altre galassie, esterne alla nostra.
A chi va dato, dunque, il credito dell'idea che l'universo si espande? È difficile dare una risposta secca. Harry Nussbaumer e Lydia Bieri riassumono i punti fermi in questo articolo (che è la sintesi del loro libro Discovering the Expanding Universe), largamente condivisi da chi ha studiato la materia. Ciascuno può provare a farsi un'idea, tenendo presenti tutti i fattori in gioco. Come già sottolineato da Kragh e Smith qualche anno fa (Who discovered the expanding universe?) la risposta finale dipende anche da cosa si intende per scoperta. La persona che per prima sviluppò il necessario modello teorico e interpretò correttamente le osservazioni fu George Lemaitre: da questo punto di vista egli è il candidato più plausibile come scopritore dell'espansione, sebbene non fu, in termini pratici, colui che fece le osservazioni. (C'è, a margine, il ben noto giallo della sparizione, nella traduzione inglese dell'articolo di Lemaitre, del riferimento a quella che in seguito divenne nota come "costante di Hubble": questione sulle cui cause ci si interroga da anni e che ha dato vita a diverse interpretazioni, di cui potete trovare un paio di esempi qui e qui.)
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Harry Nussbaumer, & Lydia Bieri (2011). Who discovered the expanding universe? arXiv:1107.2281v1
1 luglio 2011
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