24 giugno 2007

Un enorme spreco di spazio

Ho finito di leggere "Interviste extraterrestri". Tutto sommato mi è piaciuto, nonostante i suoi limiti. Il principale è che dopo un po' si rischia la monotonia. Le domande, infatti, sono sempre le stesse ("Crede che esistano altri mondi abitati?", "Come potrebbe essere una civiltà vecchia di milioni di anni?", "Pensa che costruiremo mai una macchina super-intelligente?", e così via). Questo è normale, ma il problema è che anche le risposte si assomigliano tutte (con interessanti eccezioni, però). In particolare, c'è una certa dose di conformismo nella risposta alla domanda principale, sull'esistenza di altre forme di vita nell'universo (probabilmente causata dall'imbarazzo nel non avere nessun tipo di evidenza scientifica su cui appoggiarsi). La risposta è quella classica, del tipo: "Assolutamente sì. Se si pensa alla vastità del cosmo e all'enorme numero di stelle simili al Sole, c'è una probabilità molto alta che esistano pianeti con caratteristiche adatte alla vita ed è quindi possibile che la vita si sia sviluppata su molti di questi pianeti".

Il problema con questo tipo di argomentazione è che non sembra fare completamente i conti con il modello evolutivo dell'universo. All'epoca, nel 1966, il modello del big bang cominciava appena a essere accettato (la scoperta della radiazione di fondo era di un paio di anni prima) e in molti scienziati, evidentemente, persisteva un certo pregiudizio (magari inconsapevole) in favore di un universo eterno e stazionario. In un universo del genere, sarebbe in effetti ben strano che la vita non sia emersa un numero enorme di volte in tempi e posti diversi. Ma in un universo in espansione, la dimensione dell'universo e il suo stato fisico dipendono in modo cruciale dal tempo: l'universo non è sempre uguale a se stesso, ma evolve gradualmente passando dal semplice al complesso. L'universo diventa sempre più grande col passare del tempo, e le stelle e le galassie appaiono solo in una fase piuttosto tarda della sua evoluzione.

È stato il cosmologo John Barrow a notare che, una volta che leghiamo lo stato fisico dell'universo alla variabile tempo, non dobbiamo sorprenderci di vivere in un universo enorme e pieno di stelle: ciò è dovuto al fatto che la vita può svilupparsi solo in un universo che sia sufficientemente vecchio da ospitare stelle in sequenza principale, pianeti con crosta solida, acqua allo stato liquido, e molecole complesse. Oltretutto, l'origine stessa della vita è un fenomeno che richiede una serie di passi molto delicati e (presumibilmente) a bassa probabilità, e successivamente un lungo periodo di evoluzione in un ambiente adatto. Insomma, sembra sensato assumere che la vita arrivi tardi, forse dopo molti tentativi andati male, in universo già vecchio di diversi miliardi di anni (nel nostro caso, che è l'unico che conosciamo, è andata proprio così). A quel punto, l'universo è per forza di cose enorme e pieno di stelle. Ma questo non aumenta necessariamente le probabilità che la vita abbia avuto origine in più posti. In realtà, potrebbe esserci bisogno di un universo così grande e così pieno di stelle perché la vita abbia origine anche su un solo pianeta, il nostro. Potremmo essere i primi ad affacciarci sullo scenario cosmico, e a scoprire che c'è voluto quello che Carl Sagan in Contact definiva un enorme spreco di spazio, perché la vita avesse almeno una chance di farcela.
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