Ho scritto questa recensione per il libro di Paul Davies, Uno strano silenzio. È apparsa su Il Manifesto del 23/3/2012.
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Un giorno di aprile del 1960, Frank Drake, un astronomo
trentenne che lavorava al National Radio Astronomy Observatory a Green Bank,
nella Virginia Occidentale, decise di puntare il suo radiotelescopio in
direzione di Tau Ceti, una stella simile
al Sole, distante circa 11 anni luce. Drake non stava facendo un’osservazione
astrofisica di routine. Voleva invece capire se, confusa tra la varietà di onde
elettromagnetiche che la lontana stella riversava nello spazio, ci fosse anche
la traccia di segnali emessi da una civiltà tecnologicamente avanzata. Insomma,
Drake si era messo in testa di intercettare eventuali comunicazioni radio
extraterrestri.
L’idea gliel’aveva data un articolo uscito un anno prima
sulla rivista Nature. Lo avevano scritto
due scienziati di solida reputazione, Philip Morrison e Giuseppe Cocconi,
suggerendo che gli strumenti a disposizione degli astrofisici dell’epoca
avrebbero permesso, per la prima volta, di investigare in modo rigoroso una
delle questioni più complesse e affascinanti che l’umanità si sia mai posta,
ovvero: siamo soli nell’universo? Oltre a Tau Ceti, Drake tenne sotto controllo anche un’altra stella
simile, Epsilon Eridani.
L’osservazione delle due stelle andò avanti per qualche mese, e alla fine Drake
concluse che da quei due sistemi non arrivavano segni di vita intelligente.
La breve campagna di osservazioni di Drake si concluse
dunque con un insuccesso, ma segnò l’inizio del progetto di ricerca scientifica
di intelligenze extraterrestri che divenne noto come SETI (Search for
Extraterrestrial Intelligence). Nonostante i finanziamenti altalenanti e
l’assenza di risultati positivi, il progetto SETI è andato avanti con una certa
continuità per i decenni successivi a quelle prime osservazioni, e prosegue
tuttora grazie a donazioni private. Ed è proprio la finora completa assenza di
segnali intelligenti nei radiotelescopi del SETI a dare il titolo al libro di
Paul Davies Uno strano silenzio, appena
pubblicato in Italia da Codice Edizioni. Davies — fisico teorico, cosmologo, astrobiologo,
ma soprattutto divulgatore di fama mondiale — fa il punto sulla situazione
della ricerca di vita intelligente fuori dalla Terra, e si interroga sulle
prospettive per il futuro, in quello che si potrebbe definire un saggio
“fantascientifico”: partendo dal quadro delle attuali conoscenze in biologia,
astrofisica, informatica, fisica, Davies finisce per passare in rassegna
ipotesi e congetture estremamente stimolanti, inoltrandosi con maestria in
territori ancora largamente inesplorati dalla scienza moderna.
Si parte dalla domanda fondamentale per chiunque voglia
avventurarsi nell’universo, sulle orme di Star Trek, “alla ricerca di nuove forme di vita e di civiltà”,
ovvero: cosa sappiamo dell’origine della vita? Possiamo affermare che il
passaggio che ha portato, sulla Terra, dalla materia inanimata agli organismi
viventi, sia parte di un processo in ultima analisi inevitabile, codificato in
qualche modo ancora non compreso nelle leggi fondamentali della natura (una
sorta di “imperativo cosmico”, secondo la definizione del biologo Christian De
Duve)? Oppure si è trattato di un evento fortuito, assurdamente improbabile e
quindi avvenuto soltanto una volta in tutto l’universo? Al momento entrambe le
possibilità sono aperte, e i pessimisti possono a buon diritto affermare che la
ricerca di vita fuori della Terra sia una perdita di tempo. Ma Davies propone
una verifica scientifica che potrebbe dirimere la questione senza andare troppo
lontano. Infatti, se l’origine della vita fosse un fenomeno quasi ineluttabile,
essa potrebbe essere avvenuta più di una volta proprio qui sul nostro pianeta.
La Terra potrebbe allora ospitare una “biosfera ombra”: forme di vita
microscopiche completamente diverse da quelle che conosciamo, basate magari su
meccanismi biochimici indipendenti da quelli in base ai quali operiamo noi
stessi. Se si trovassero evidenze in tal senso, la cosa avrebbe implicazioni
importanti anche per la ricerca di vita altrove nel cosmo. In effetti, Davies è
stato uno degli autori di uno studio, pubblicato su Science qualche tempo fa, che sembrava dimostrare
l’esistenza di batteri in grado di metabolizzare l’arsenico: risultato accolto
però dalle polemiche e dal forte scetticismo dalla comunità scientifica.
Anche se non abbiamo ancora nessuna prova che la vita abbia
avuto origine più di una volta sulla Terra, Davies argomenta in modo
convincente che dovremmo mantenere una mentalità aperta quando cerchiamo tracce
di organismi viventi in altri pianeti dell’universo. E se la vita potrebbe aver
seguito strade diverse da quelle percorse sulla Terra, allora anche
l’evoluzione dell’intelligenza, della civiltà e della tecnologia potrebbe aver
portato, altrove, a esiti completamente diversi. La cosa, naturalmente, avrebbe
conseguenze per il SETI. Chi ci dice, ad esempio, che cercare segnali
elettromagnetici sia la cosa più sensata da fare? A circa un secolo dalla
scoperta e dallo sfruttamento massiccio delle comunicazioni radio, la nostra
specie sta già abbandonando quasi completamente l’etere, per riversare le sue
informazioni nelle autostrade informatiche e nelle reti ad alta velocità.
Probabilmente, tra qualche decennio, la Terra apparirerà completamente muta per
un osservatore che la osservi da un pianeta lontano — a meno che non
decidessimo di rendere manifesta la nostra presenza volontariamente,
installando potenti radiofari cosmici. Le stesse vie dell’evoluzione biologica
potrebbero diventare troppo strette nell’immediato futuro. Davies si dice
convinto — e con valide ragioni — che l’esplosione dell’intelligenza
artificiale e un’integrazione uomo-macchina sempre più spinta siano scenari
altamente probabili per il nostro futuro. E allora, se ci sono altre
intelligenze nell’universo, è molto probabile che la loro natura sia di tipo
non-biologico: supercomputer intelligenti, cervelli ramificati fino a coprire
la superficie di un intero pianeta, capaci di sfruttare risorse di calcolo e di
energia che a noi sembrerebbero praticamente infinite. È difficile immaginare
come potremmo rapportarci con organismi di questo tipo.
In effetti, le pagine più affascinanti di Uno strano
silenzio sono forse quelle in cui Davies,
cercando nuove prospettive per il SETI, esplora le possibilità che si aprono
quando si abbandona il nostro provincialismo di specie. Il libro diventa allora
una dettagliata riflessione sulla tecnologia presente e futura, sulla scienza,
sulla civiltà, e in definitiva anche sul nostro avvenire sulla Terra e, chissà,
al di fuori.
Alla fine della sua interessante analisi, Davies — che tra
l’altro presiede il gruppo di lavoro del SETI che dovrebbe fornire indicazioni
per la gestione delle fasi successive a un eventuale contatto con una civiltà
aliena — si mostra piuttosto scettico sulla possibilità che esistano altre
forme di intelligenza nell’universo. È del tutto possibile che il nostro
pianeta sia l’unico dove la materia è riuscita ad auto-organizzarsi fino a
diventare cosciente. Questa consapevolezza, se non altro, dovrebbe rendere
ancora maggiore la nostra responsabilità nei confronti di questo minuscolo sasso
umido su cui ci è capitato di vivere.