Dell'ultimo libro di Douglas Hofstadter, "I Am a Strange Loop", si può dire che riparte da dove ci aveva lasciato "Gödel, Escher, Bach", e che di quel libro riprende il tema principale, depurandolo delle digressioni che ne rendevano la lettura un'esperienza stimolante e frustrante allo stesso tempo. L'ossessione di Hofstadter è sempre quella di capire come dall'auto-organizzazione della materia inanimata possano a un certo punto emergere la coscienza e la consapevolezza; ancora una volta, la soluzione proposta è che la chiave sia nelle proprietà autoreferenziali (gli "strani anelli" del titolo) che scaturiscono in modo apparentemente inevitabile quando i sistemi simbolici superano un certo livello di complessità, come viene esemplificato attraverso l'ennesima analisi dell'opera di Gödel. A trent'anni di distanza dal primo libro, Hofstadter sembra essere meno entusiasta delle prospettive dell'intelligenza artificiale, che in effetti non vengono neanche discusse. Ma resta convinto che si possa comprendere la coscienza non solo senza ricorrere a ipotesi magiche, ma neanche tirando in ballo meccanismi fisici sconosciuti e forse inconoscibili (alla Penrose).
Il limite del libro è che, in fondo, nessuna delle idee proposte, per quanto affascinanti, porta a una spiegazione rigorosa e convincente del funzionamento della coscienza: si va avanti per intuizioni e analogie, alcune delle quali francamente piuttosto deboli (come il video-feedback prodotto puntando una videocamera su uno schermo televisivo che ne riproduce le immagini). Ma, nonostante questo, leggendo "I Am a Strange Loop" si ha il privilegio di ascoltare i pensieri di una persona estremamente acuta, che ha riflettuto a fondo su problemi incredibilmente complessi, e che, cosa non trascurabile, scrive benissimo. E forse, le cose più belle del libro sono quelle più personali, le pagine in cui Hofstadter parla della moglie scomparsa improvvisamente, della sensazione che frammenti di quelle configurazioni simboliche che ne costituivano l'essenza sopravvivano qua e là, come un software che continui a girare su hardware diversi — in una specie di immortalità fragile e imperfetta. L'io è un'illusione, conclude Hofstadter, un'allucinazione percepita da un'allucinazione, un miraggio tenace, utile alla sopravvivenza di organismi complessi come gli esseri umani, ma non più reale di un arcobaleno.