30 marzo 2010

Orchestre artificiali

Parecchi anni fa mi capitò di leggere uno strano libro (Measure for Measure, di Thomas Levenson), un tentativo di raccontare una storia della scienza attraverso la storia degli strumenti musicali. Si partiva dal monocordo (una semplice corda vibrante) come simbolo della matematizzazione del mondo intrapresa dalla scuola di Pitagora, passando per l'organo (uno strumento che quando fu inventato appariva mirabilante e spaventoso, per quanto era complesso), continuando con i miracoli di liuteria di Stradivari, e terminando con i sintetizzatori e il MIDI. L'idea di fondo era che gli strumenti musicali sono un indicatore del grado di progresso tecnologico dell'epoca che li produce, tanto quanto gli strumenti usati per l'indagine scientifica.

Forse la tesi era a tratti un po' forzata, ma complessivamente era un libro interessante. In ogni caso, la cosa mi è tornata in mente vedendo quello che ha fatto Pat Metheny per il suo ultimo album, Orchestrion. Un sistema MIDI collegato a strumenti acustici attraverso dei solenoidi gli permette di suonare un'intera orchestra di strumenti reali controllandola dalla chitarra. Il suono è prodotto meccanicamente, stimolato elettromagneticamente e controllato digitalmente. In pratica, da Pitagora a Turing in un solo strumento. Difficile paragonare una cosa del genere a un satellite o a un acceleratore di particelle, però il risultato è abbastanza impressionante. (E soprattutto, la musica di Metheny è sempre bella).


26 marzo 2010

Comunicazione di servizio

Domani sera, invitato dalla Società Astronomica Ticinese, faccio una conferenza pubblica a Bellinzona, all'auditorium BancaStato. Iniziamo alle 20.30, se siete da quelle parti fate un salto. (Per altri dettagli, qui c'è un'intervista per il Corriere del Ticino.)

25 marzo 2010

Tutto è numero

Lo dicevano i pitagorici. E, a vedere questo cortometraggio, forse avevano ragione. (Qui, i dettagli matematici.)

23 marzo 2010

Crescite esplosive


L'andamento del volume di pubblicazioni scientifiche, riferite al dato del 1981. (Via backreaction. Qui il rapporto completo)

18 marzo 2010

Il solito problema della polvere

Dico: mica vi sarete dimenticati che lì fuori, in un punto a un milione e mezzo di chilometri da qui, c'è sempre Planck (il satellite, non il fisico) che sta cercando di catturare i fotoni più antichi dell'universo, quelli provenienti dal big bang?

Solo che tra noi e quei fotoni lontanissimi c'è di mezzo un po' di roba.


Polvere. Tanta polvere disseminata fra le stelle della nostra galassia. La polvere assorbe la luce delle stelle, viene riscaldata e rilascia un po' di calore, e quindi di radiazione elettromagnetica. Così, scrutando le microonde in cerca dei fotoni fossili, Planck si ritrova davanti anche questi bellissimi filamenti di sporcizia cosmica; e siccome in fondo il suo strumento non è che un termometro sensibilissimo, è in grado di percepire la differenza di temperatura tra le varie zone (le regioni più rosse sono a una dozzina di gradi sopra lo zero assoluto, quelle bianche sono più calde di qualche decina di gradi).

Se siete cosmologi (ehm) e vi interessa guardare più lontano possibile per vedere come era l'universo subito dopo il big bang, ritrovarsi la polvere davanti agli occhi è un bel fastidio. Fortunatamente, è concentrata quasi tutta nel disco della galassia, così che la maggior parte del cielo è praticamente sgombra. (E poi, potete sempre usare delle sofisticate tecniche di analisi per ridurre la contaminazione nelle misure.) Se invece siete astrofisici la polvere vi interessa più del big bang, e un'immagine del genere può dirvi un mucchio di cose (lì dentro si formano le stelle, tanto per dirne una). (Se invece non siete né astrofisici né cosmologi, ma vi piacciono le immagini spettacolari dell'universo, be', mi pare che non vi possiate lamentare.)

(Immagine © ESA e HFI Consortium, IRAS)

15 marzo 2010

Il tempo non basta

È in periodi come questo che vorrei avere la possibilità di sfruttare pienamente le mirabilanti conseguenze della teoria della relatività. Per esempio, mi farebbe molto comodo poter trovare un sistema di riferimento in cui la dilatazione dei tempi rendesse le mie giornate lunghe, che so, il triplo degli altri abitanti del pianeta. Purtroppo, in condizioni normali gli effetti relativistici sono talmente piccoli che bisogna inventarsi dei modi ingegnosissimi soltanto per accorgersi che esistono. Come nell'esperimento di Pound e Rebka (di cui parlammo qui) o in una sua versione aggiornata e molto più precisa che usa un complicato sistema di intereferenza quantistica tra atomi, e i cui risultati sono stati recentemente pubblicati su Nature. (La curiosità è che uno dei tre autori è Steven Chu, il premio Nobel ministro dell'energia di Obama. Chissà, forse anche lui ha problemi di tempo.)

Niente, dovrò rassegnarmi a dormire un numero minore di ore.

2 marzo 2010

Moderare la velocità

Su New Scientist di qualche giorno fa si raccontava di uno studio presentato al congresso dell'American Physical Society, secondo cui viaggiare nello spazio a velocità prossime a quelle della luce sarebbe molto pericoloso. Il motivo è abbastanza ovvio. Lo spazio interstellare non è completamente vuoto, ma contiene atomi liberi, soprattutto idrogeno, l'elemento più abbondante nell'universo. La densità degli atomi è molto bassa; ma, siccome tutti i moti sono relativi, un'astronave che viaggiasse a velocità prossime a quelle della luce si troverebbe bombardata da un numero non trascurabile di atomi ad altissima energia cinetica. Sarebbe un po' come trovarsi dentro l'anello di LHC.

Ovviamente, si sa che ci sono altre e altrettanto serie ragioni, pratiche e teoriche, che rendono il viaggio di veicoli spaziali a velocità prossime a quelle della luce praticamente irrealizzabile. La principale è che, secondo la teoria della relatività, man mano che la velocità di un corpo aumenta, aumenta anche la sua massa, cosicché ci vorrebbe una quantità di energia inimmaginabile (al limite, infinita) per continuare ad accelerarlo. Inoltre, anche se fosse possibile, viaggiare a velocità prossime a quelle della luce sarebbe sconsigliabile per gli effetti che ciò avrebbe sullo scorrere del tempo del viaggiatore, che finirebbe per trovarsi completamente sfasato rispetto ai suoi colleghi rimasti sulla Terra.

Come che sia, quando si parla di questo tipo di cose, la cosa più banale è tirare in ballo Star Trek. E quindi, l'autrice dell'articolo di New Scientist esordisce dicendo che, se l'Enterprise fosse reale, Kirk, Spock e McCoy morirebbero per una dose fatale di radiazioni.  Ora, siccome anche la cultura pop è una cosa seria, prima di lanciarsi in paragoni di questo tipo bisognerebbe sapere un po' di cose (più che altro per non essere insultati da schiere di nerd che indossano maglie azzurre e orecchie a punta). Intanto, che l'Enterprise ha due tipi di motori, uno per andare a velocità minori di quelle della luce (i motori a impulso) e uno per superarla (i motori a curvatura). Gli autori di Star Trek (soprattutto nelle serie più recenti) erano ben consapevoli dei problemi legati al moto a velocità prossime a quelle della luce. Avevano quindi escogitato una serie di accorgimenti: gli scudi (per deflettere eventuali ostacoli), i correttori dell'inerzia (che dovevano evitare che l'equipaggio fosse ridotto a una sogliola durante le fasi di accelerazione), e soprattutto l'uso dei motori a impulso solo per velocità basse e per piccoli spostamenti.

Per superare la velocità della luce, cosa che come tutti sanno è fisicamente impossibile, l'Enterprise non viaggiava nello spazio, ma modificava lo spazio stesso per creare una specie di onda che trasportava l'astronave dal punto A al punto B, un po' come fa un surfista: la tavola è ferma sull'onda ed è l'onda a spostarsi. In questo modo, usando il motore a curvatura, l'equipaggio dell'Enterprise evitava gli effetti collaterali dei viaggi relativistici, perché la bolla di spazio intorno all'astronave era ferma: era lo spazio esterno che, deformandosi, spingeva la bolla alla velocità desiderata, che poteva anche essere maggiore di quella della luce. La cosa era talmente ingegnosa che qualche anno fa uscì un articolo scientifico che tentava di mettere il tutto su basi rigorose.

Morale: nella realtà, è di fatto impossibile che un'astronave possa raggiungere la velocità della luce (non parliamo nemmeno di superarla). Ma quando si tratta di inventare buona fantascienza, non sottovalutate la fantasia di autori con buone conoscenze scientifiche.