26 febbraio 2013

Morphing mentale

L'altro giorno, in un post in cui elencavo alcune delle cose che diamo per scontato e che secondo la scienza non lo sono, ho citato anche la nostra identità personale: concetto a cui siamo tutti comprensibilmente molto attaccati, ma che non per questo è necessariamente anche reale. Ora vedo che il numero di New Scientist di questa settimana dedica copertina e parecchi articoli al problema.

Il punto non è se il senso dell'io sia un concetto utile per la nostra esistenza (è ovvio che lo è) né se sia reale in un qualche senso astratto, ma se a esso corrisponda qualcosa di concreto, un quid immutabile che governa le nostre azioni senza essere dipendente dal sostrato materiale. Questione tutt'altro che risolta, ma interessante, se vi piace il genere. Molte delle cose che so in proposito le ho lette (ormai oltre quattro anni fa: come vola il tempo) in Anelli nell'io, il libro in cui Douglas Hofstadter illustra il suo approccio riduzionista al problema della coscienza. A supporto della sua idea che l'io sia fondamentalmente un'illusione, Hofstadter cita, tra gli altri, il filosofo inglese Derek Parfit, da cui mutua in particolare un paio di esperimenti mentali, uno dei quali ha qualche risonanza con l'esperimento mentale di Dawkins di cui ho parlato un po' di tempo fa. (Per inciso: Parfit è uno che ama elucubrare su grosse questioni, per esempio perché esista qualcosa invece che nulla: la sua soluzione non mi convinve particolarmente, ma se siete interessati la trovate in questo articolo).

Si tratta di immaginare che un neurochirurgo sia in grado di intervenire sul cervello di una persona con un livello di sofisticazione tale da poterlo riconfigurare gradualmente, una particella alla volta, fino a farlo diventare la copia perfetta del cervello di un'altra persona. (Non è rilevante che l'operazione si possa fare in pratica: per l'esperimento mentale conta solo contemplare l'eventualità.) Parfit ipotizza che un'operazione del genere sia condotta sul proprio cervello, trasformandolo, giorno dopo giorno, in quello di Napoleone. La domanda è: quando, esattamente, Parfit smetterà di sentirsi Parfit e inizierà a sentirsi Napoleone? Chiaramente, mentre il senso dell'identità personale sembra essere di tipo binario (o io sono io, oppure non sono io) in questo caso di chirurgia plastica estrema si procede per gradi, e non c'è mai un momento in cui si possa individuare una transizione netta da un individuo all'altro (proprio come nell'esempio di Dawkins non c'è mai un salto di specie tra genitore e figlio). Eppure, all'inizio e alla fine del processo abbiamo due identità che appaiono completamente distinte. È un po' come nel morphing di due volti: dove avviene il salto?


Parfit (e Hofstadter con lui) ne trae la conclusione che non esista niente di simile all'ego cartesiano, indistruttibile e slegato dalla materia.

Lo so, l'esperimento mentale di Parfit sembra astruso e campato in aria. È interessante però che una cosa del genere, in fondo, avviene in ognuno di noi, senza che ce ne rendiamo conto, con il passare del tempo. (A proposito: avete mai visto il video di quel tizio che si è fatto una foto tutti i giorni per più di dodici anni?) Quanto siamo diversi da ciò che eravamo dieci o venti anni fa? E dove è avvenuto, esattamente, il cambiamento?
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