28 maggio 2011

Risolto il problema della massa mancante?

Allora. Succede che una studentessa australiana di 22 anni, a cui hanno dato un progetto di ricerca per uno stage, ottiene dei risultati interessanti. Ci scrive un articolo, insieme al suo supervisore e a un'altra ricercatrice, e l'articolo viene accettato da una rivista scientifica. L'università australiana decide allora di fare una press-release, questa. Nella press-release si insiste molto sul fatto che una studentessa così giovane è riuscita a ottenere una pubblicazione su una rivista importante, e che l'ha fatto durante uno stage di tre mesi. Chi l'ha scritta, evidentemente, ritiene che sia soprattutto quella l'"esca", la cosa "notiziabile". Ma si parla anche di astrofisica, massa mancante, misteri che vengono risolti, passi avanti improvvisi. Ce n'è abbastanza perché la press-release venga pescata tra le centinaia che ogni giorno passano inosservate, sommerse dal rumore di fondo. E insomma, su tutti i mezzi d'informazione mondiali appare la notizia che una studentessa avrebbe risolto, in tre mesi, il problema della massa mancante.

Ma è davvero così? Ovviamente no. Quello che la pur brava studentessa ha fatto è stato studiare delle grandi strutture - chiamate filamenti - che collegano tra loro gruppi o ammassi di galassie e che, essendo piene di elettroni liberi caldi, emettono raggi X. Sono strutture difficili da osservare, perché l'emissione è debole, ed è importante cercare di capire quanta materia si nasconde là dentro: è quello che è stato fatto in questa ricerca (peraltro non per la prima volta). Tra l'altro stiamo parlando di materia ordinaria, sebbene poco visibile, non della più esotica materia oscura non barionica sulla cui natura c'è ancora più o meno il buio pesto. Quindi, un (piccolo) passo avanti, interessante quanto si vuole, ma non la fine della storia. A Repubblica.it, che mi ha chiesto un parere, ho provato a spiegare un po' meglio la cosa, a caldo, e naturalmente nei limiti consentiti dal contesto.

Ora, tra gli hobbisti della comunicazione, soprattutto in rete, c'è sempre la gara a fare le pulci alla stampa generalista, in particolare quando si occupa di scienza. Ma come dimostra chiaramente questo caso, il problema, spesso, è più a monte. Qui i giornalisti hanno semplicemente riportato, piuttosto fedelmente, la press-release originale. E purtroppo le press-release scientifiche - parlo soprattutto di quelle del mondo anglosassone, che dominano il conteggio complessivo - ormai sembrano quasi tutte, immancabilmente, l'annuncio di una qualche clamorosa rivoluzione. È l'unico modo per sperare di sopravvivere, in un ecosistema sempre più competitivo.

Ma il giornalista è solo un mediatore, e una redazione non può essere composta da decine di esperti in grado di cogliere i minimi dettagli tecnici di una notizia scientifica. Al massimo si può avere qualche scienziato di riferimento a cui chiedere un parere nei casi dubbi: ed è già tanto. Sarebbe quindi una buona cosa se chi deve comunicare le proprie ricerche al pubblico iniziasse a vedere il giornalista come un alleato con cui collaborare onestamente, evitando di rifilargli, magari mosso dalle migliori intenzioni, mezze patacche come questa. Perché è ovvio che il risultato di questi "al lupo al lupo" sempre più frequenti, alla lunga, è controproducente un po' per tutti.
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