4 settembre 2009

Vite degli astronomi /7. Henrietta Leavitt (1868-1921)

Nelle foto che restano di lei, Henrietta Leavitt sembra la sorella di Emily Dickinson. Stessi colletti alti di pizzo, stesse maniche lunghe, stessa aria seria e meditabonda. Pare di vederle, entrambe sedute a un tavolo, chiuse in una stanza con le finestre alte da cui si vedono le querce rosse del Massachusetts: Emily a scrivere poesie, Henrietta a studiare lastre fotografiche.

A quei tempi, le donne non avevano accesso ai telescopi. Quelle che lavoravano negli osservatori lo facevano come calcolatori umani: ore e ore a fare operazioni lunghe e ripetitive, giorni passati a riempire pagine di numeri, a macinare logaritmi e sviluppi in serie. Gli uomini facevano scienza, pubblicavano saggi e viaggiavano per il mondo tra università e congressi; le donne restavano nell'ombra, sottopagate, ad analizzare numeri e dati.

Nel 1895, quando Henrietta arrivò all'Harvard College Observatory, una meningite l'aveva appena resa completamente sorda. Si offrì come volontaria non retribuita, e il direttore trovò per lei uno di questi lavori meccanici che nessun astronomo maschio avrebbe mai fatto. Si trattava di analizzare decine, centinaia di lastre fotografiche dello stesso oggetto celeste — una stella o una nebulosa — per individuare e misurare piccole variazioni di luminosità. Henrietta aveva il compito di trovare le stelle che mostravano una variazione di luminosità periodica. Con grande tenacia e dedizione, Leavitt si consacrò a questo lavoro ingrato, scoprendo alcune migliaia di queste stelle variabili — il catalogo più ricco esistente ai suoi tempi.

Ma se Henrietta Leavitt si fosse limitata a eseguire con scrupolo il compito ripetitivo che le era stato assegnato, oggi sarebbe solo una delle tante anonime e dimenticate calcolatrici umane dell'astronomia ottocentesca. La passione e la curiosità la spinsero invece a cercare di estrarre informazioni più profonde, a stabilire legami e relazioni matematiche tra le quantità che leggeva nelle lastre. Così, si accorse che per una classe particolare di stelle variabili, chiamate Cefeidi, esisteva una precisa relazione tra il periodo di variazione e la luminosità. Più lenta era la variazione, più luminosa era la stella. Era una scoperta formidabile, perché conoscere la luminosità di una stella equivale a conoscere la sua distanza. Da quel momento in poi, il segnale pulsante di una Cefeide in una galassia lontana sarebbe stato come una targa chilometrica lasciata lì per noi dalla natura.

Emily Dickinson, dalla sua stanzetta di Amherst, passò la vita a immaginare l'infinito. Henrietta Leavitt consegnò all'umanità il metro per misurare l'universo.

Quando nel 1924 un accademico svedese la propose per il premio Nobel, scoprì che era morta qualche anno prima.
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