8 novembre 2006
L'intelligenza è davvero rara?
La cosa che ha scatenato più domande tra i miei studenti nella prima lezione di astrobiologia è stata un'idea di Brandon Carter risalente a una ventina di anni fa. Secondo Carter, la presenza di vita intelligente nell'universo sarebbe estremamente rara, essenzialmente per il motivo seguente: nell'unico posto (la Terra) dove sappiamo che esiste, questa ci ha messo circa 4-5 miliardi di anni per emergere (le forme di vita più semplici sono in realtà apparse quasi subito sulla Terra, ma qui parliamo di vita evoluta che vive sulla terraferma). Questo tempo è confrontabile con la durata complessiva della vita di una stella come il Sole (che si esaurisce in una decina di miliardi di anni).
Per capire come questo semplice fatto abbia portato Carter a una conclusione così pessimistica, dobbiamo seguire un ragionamento un po' complicato, ma apparentemente molto convincente. Noi non sappiamo qual è, dal punto di vista biologico, il tempo necessario alla vita intelligente per svilupparsi, una volta che esistano le giuste condizioni. Supponiamo che questo tempo sia molto più corto del tempo di vita medio di una stella. Allora il sorgere della vita intelligente su un pianeta simile alla Terra sarebbe un fatto molto probabile: ma se è così, perché nel nostro caso ci è voluto così tanto? Sembra che abbiamo pescato un caso estremamente sfortunato tra i tanti possibili, cosa molto sospetta.
Bene, allora ribaltiamo l'ipotesi. Assumiamo che il tempo necessario al sorgere della vita intelligente sia molto più lungo del tempo di vita medio di una stella. In questo caso, non è più sorprendente che il nostro caso appaia come una coincidenza. Siamo stati molto fortunati, viviamo in uno dei primi posti nell'universo dove si è arrivati a uno stadio di sviluppo così avanzato: abbiamo fatto appena in tempo, siamo arrivati proprio allo scadere, un po' prima che la morte della stella che ci ospita renda la cosa impossibile. Tuttavia, in questo caso quella che ci appare come un'enorme fortuna non deve sorprenderci, perché la nostra osservazione è condizionata dal fatto stesso che esistiamo. Il nostro punto di vista altera la nostra percezione delle probabilità in gioco. Siamo probabilmente gli unici nell'universo a poter fare questa osservazione, quindi non dobbiamo meravigliarci di aver pescato la sola carta fortunata tra le tante possibili. Non possiamo metterci nei panni degli altri giocatori semplicemente perché essi non esistono!
Quindi, la conclusione di Carter è pessimistica. In genere, il sorgere della vita intelligente sarebbe un evento estremamente raro, che prende un tempo molto più lungo della vita media di una stella, e quindi nella maggior parte dei casi non avviene affatto.
L'argomento di Carter rientra tra i molti che fanno uso del cosiddetto principio antropico, su cui vorrei tornare più in dettaglio un'altra volta. Recentemente, comunque, Mario Livio ha proposto una possibile alternativa, basata sul fatto che i due tempi in gioco (il tempo necessario all'emergere della vita intelligente e quello di vita di una stella) potrebbero non essere indipendenti, cosa che vanificherebbe il calcolo delle probabilità proposto da Carter. Ad esempio, l'evolvere della vita sulla terraferma di un pianeta richiede quasi certamente la presenza di una fascia protettiva di ozono nell'atmosfera, cosa direttamente legata all'emissione di un preciso tipo di radiazione ultravioletta da parte della stella. Secondo i calcoli di Livio, il verificarsi di questa condizione porterebbe a una correlazione tra il tempo necessario all'evoluzione di vita complessa su un pianeta e l'età della stella che lo ospita. Tutti gli eventuali osservatori intelligenti nell'universo dovrebbero quindi osservare proprio quello che osserviamo noi.
L'argomento di Livio non è affatto conclusivo, ma è almeno un controesempio interessante che può dare speranza agli ottimisti...