31 luglio 2007

Biforcazioni

Questa cosa degli universi paralleli che piace tanto agli scrittori di fantascienza (e non solo, visto che ne parlava diffusamente Nature qualche numero fa) fu tirata fuori per la prima volta negli anni ‘50 da Hugh Everett, un dottorando americano che studiava a Princeton con John Wheeler. Everett tentava di risolvere uno dei problemi interpretativi più complessi della meccanica quantistica, la teoria fisica che descrive il mondo su scale microscopiche. Nell’intepretazione consueta, lo stato di un sistema (ad esempio la posizione di una particella nello spazio) non è determinato con precisione fino a quando non lo si misura. Per esempio, in un dato istante una particella non è in un certo punto dello spazio, ma un po’ ovunque, con una certa probabilità. È l’operazione di misura che fa “scegliere” a caso al sistema uno tra tutti gli stati possibili (per esempio la particolare posizione di una particella). Secondo questo tipo di interpretazione, chiedersi quale fosse lo stato del sistema prima della misura (o addirittura se il sistema esistesse del tutto) non ha alcun senso. Da qui nasce tutta una serie di paradossi, come quello del gatto di Schrodinger. La vita del povero felino, chiuso in una scatola sigillata, dipende dalla rottura di una fiala di gas tossico che viene azionata o meno a seconda che un certo sistema microscopico si trovi in uno tra due possibili stati. Ma il sistema sceglie uno dei due stati solo se viene sottoposto a una misura. Quindi, finché qualcuno non va a controllare, aprendo la scatola e misurando lo stato del sistema, il gatto dovrebbe essere ritenuto contemporaneamente sia vivo che morto. Per uscire da questo tipo di paradosso, Everett ipotizzò che ogni misura porti a una biforcazione della storia dell’universo in due (o più) realtà che hanno la stessa esistenza fisica, ma che non sono comunicanti. In un universo il gatto è vivo e vegeto, nell’altro ha fatto una brutta fine. Ma entrambi gli universi sarebbero, in qualche senso, reali. E come loro, tutti gli altri infiniti universi generati in ogni istante, ogni volta che qualcosa può essere in un modo o in un altro. Un po’ come in Sliding Doors, insomma, ma molto peggio.

(Subito dopo il dottorato, Everett si scocciò della fisica e andò a fare i soldi come consulente nell’ambito della difesa militare, bevve e fumò molto, e morì piuttosto giovane, di infarto. Suo figlio canta e suona negli Eels.)

30 luglio 2007

Questione di definizioni

La discussione sullo stato della fantascienza, iniziata con il post precedente, prosegue sul blog di Giovanni De Matteo (al quale, fresco vincitore del Premio Urania, vanno le mie congratulazioni pubbliche dopo quelle che gli avevo già fatto in privato). Alla fine, come spesso accade, il problema è quello di mettersi d’accordo sulle definizioni, dato che sono fantascienza, per dire, i romanzi di Dick e i fumetti di Flash Gordon, il cyberpunk di Gibson e la space opera umanistica di Star Trek, la provincia americana trapiantata su Marte di Bradbury e le visioni tecnologiche e postumane di Clarke (e poi, come collochiamo Kurt Vonnegut, o Douglas Adams?). Come tutti gli appassionati di fantascienza, so bene che per definirmi devo sempre aggiungere una serie di punti di riferimento da cui l’interlocutore capisca in che ambito si collochino i miei interessi: per esempio, ritengo che certa cosiddetta fantascienza avventurosa (alla Leigh Brackett, per capirci) sia, per quanto godibile, più propriamente accomunabile alla fantasy; oppure che molti dei romanzi di Asimov non siano nient’altro che romanzi gialli di ambientazione futuristica (qui so già che mi pioveranno addosso accuse di eresia). Gli stessi padri fondatori, se vogliamo definire così Verne e Wells, avevano due approcci piuttosto diversi tra loro: estrema attenzione all’accuratezza tecnologica, al limite della pedanteria, il primo; un interesse incentrato quasi esclusivamente sul piano filosofico-sociale, il secondo. Quindi, il punto è: cosa vogliamo farci, oggi, con la fantascienza? Giovanni tenta di abbozzare una sua personale definizione (che mi convince parecchio). La scorsa settimana aveva anche messo insieme una lunga serie di interpretazioni da fonti diverse. A me, una che era piaciuta parecchio è questa di Brian Aldiss:
“La fantascienza è la ricerca di una definizione dell'uomo e del suo ruolo nell'universo basata sulla nostra avanzata, ma confusa, conoscenza scientifica.”

25 luglio 2007

Fine della fantascienza?

Dice oggi Luca de Biase che lui e Sandrone Dazieri hanno parlato e sono giunti alla conclusione che la fantascienza non se la passa tanto bene, oggi, ché a malapena riesce a tenere dietro alle scoperte scientifiche e ai progressi tecnologici, figuriamoci anticiparli. E proprio ieri leggevo su Discover Magazine un articolo che, partendo da considerazioni analoghe, ci andava giù ancora più pesante, decretando che la fantascienza è ormai obsoleta e ci resta solo la fantasy (orrore!). Dice: Wells e Verne profetizzavano, e dopo molto molto tempo arrivava la scoperta. Adesso la scoperta arriva prima, prevedere il futuro è diventato impossibile, e il lettore si annoia. Io ci aggiungo: è sempre più difficile inventare qualcosa di soprendente ma credibile. O è plausibile ma già vista, oppure è troppo grossa per crederci.

24 luglio 2007

Delusioni

Uno aspetta per anni di leggere un libro che si intitola "Sulla realtà dei quanti". Aspetta di leggerlo da quando lo ha visto citato nella bibliografia ragionata di "Gödel, Escher, Bach" che, vabbè, avrà pure i suoi limiti, ma è comunque un gran libro, e Hofstadter non è mica uno stupido. Bello, pensa, è strutturato come un dialogo galileiano, ci sono dentro proprio Salviati, Sagredo e Simplicio che discutono di meccanica quantistica. E che bella la meccanica quantistica, c'è tanto di quel materiale su cui speculare, tante cose da provare a capire. E il "Dialogo" di Galileo è un libro meraviglioso. E, insomma, uno questo libro lo vuole proprio leggere, ma non è mai il momento; però in realtà gli sembra quasi di averlo letto già e di sapere che è proprio bello. Poi un giorno finalmente lo legge. E non gli piace nemmeno un po'.

23 luglio 2007

Dama, non dama

"Colgo quindi l'occasione per sostenere che le facoltà più elevate dell'intelligenza riflessiva sono messe alla prova più a fondo e con maggiore utilità dal gioco più modesto della dama piuttosto che dall'elaborata frivolezza degli scacchi. In quest'ultimo gioco, dove i pezzi si muovono con mosse diverse e bizzarre, secondo dei valori vari e variabili, ciò che è soltanto complesso viene scambiato (errore piuttosto comune) per ciò che è profondo. Si richiede qui la massima capacità d'attenzione. Distrarsi per un attimo significa commettere una svista da cui deriverà un danno o una sconfitta. Poiché le mosse possibili non sono soltanto molteplici, ma anche complesse, le occasioni per simili sviste si moltiplicano, e nove volte su dieci vince la partita non il giocatore più acuto, ma quello che sa maggiormente concentrarsi. Nel gioco della dama, invece, dove il movimento è unico e consente poche variazioni, le probabilità di distrazioni sono minori, e dal momento che la semplice attenzione viene impegnata solo relativamente, i risultati ottenuti da entrambi gli avversari sono attribuibili soltanto a una maggiore dose di acumen. Per toglierci dall'astratto: immaginiamo una partita a dama dove i pezzi siano ridotti a solo quattro dame, e dove naturalmente non ci sia da aspettarsi alcuna svista. E' chiaro che qui la vittoria sarà decisa (dal momento che i giocatori si trovano su un piano di parità) da una mossa 'recherchée', risultato di un eccezionale sforzo mentale. Non potendo valersi dei consueti stratagemmi, l'analista s'insinua nello spirito dell'avversario, si identifica con esso, e non di rado vede così, a colpo d'occhio, l'unica mossa (a volte assurdamente semplice) mediante la quale può indurlo a commettere un errore o affrettare un calcolo sbagliato."

Io questa citazione da “I delitti della Rue Morgue” di Poe (beh, non proprio tutta, una mia sintesi opportunamente parafrasata) la sono andato ripetendo a destra e a manca per anni. Mi ci facevo forza, ché a scacchi non sono mai stato un granché. E sì che ci ho provato. Ma richiedono troppa concentrazione, troppa freddezza, troppa cattiveria (“Gli scacchi sono lo sport più violento di tutti”, un’altra citazione, di Garry Kasparov). Belli, gli scacchi, bellissimi, c’è tutta un’estetica matematica, una ricerca di simmetrie, il “nobil giuoco” e tutto il resto. (Ah, il silenzio di certe sale da torneo moquettate di verde). Ma poi, fondamentalmente, chi perde a scacchi si sente stupido. Molto. E insomma, io mi davo un tono citando Poe e dicendo che a dama, a dama sì che si vede la vera intelligenza.
Ecco. Poi, però, qualcuno calcola calcola e scopre che basta, finiamola qui, ché tanto la dama è risolta. Sarebbe a dire: se nessuno dei due giocatori sbaglia mossa il risultato è per forza una patta.
Insomma, la dama ridotta al livello del tris.

(Via Dorigo e Momoblog).

21 luglio 2007

A small step, ecc. ecc.

Se siete di quelli che hanno amato "The right stuff", o "Apollo 13", o "From the Earth to the Moon", andate a dare un’occhiata a questo qui, che promette bene. (Che poi, vabbè, oggi sarebbe il 21 luglio.)

20 luglio 2007

I sogni di Einstein

In un mondo in cui il futuro è già deciso, la vita è un infinito corridoio di stanze: ogni stanza viene illuminata al momento opportuno e la successiva è al buio, ma già pronta. Camminiamo da stanza a stanza, guardiamo quella illuminata, il presente, e poi andiamo avanti. Non conosciamo le stanze successive, ma sappiamo che non possiamo cambiarle. Siamo spettatori delle nostre vite.
Normalmente non rileggo libri già letti. Mi sembrerebbe di usare male il tempo, già scarso, che posso dedicare alla lettura. E poi c’è sempre il rischio di avere brutte sorprese, scoprire che il libro è invecchiato male, o sono invecchiato male io. Ma ieri sera non riuscivo a decidere quale libro iniziare tra i tanti in attesa. E, un po’ per pigrizia, un po’ perché l’idea mi frullava in testa da qualche giorno, ne ho ripreso dallo scaffale uno che avevo letto una quindicina di anni fa, alla sua uscita, mentre mi stavo laureando. Si chiama "I sogni di Einstein". Lo pubblicava Guanda, non so se sia ancora in catalogo. Lo ha scritto Alan Lightman, che è un fisico del MIT, co-autore tra l’altro di un famigerato testo sui processi radiativi che gli studenti di astrofisica conoscono fin troppo bene. Lightman si è diviso per molto tempo tra il mestiere di scrittore e quello di scienziato, ha scritto su molte riviste non scientifiche, tra cui il New Yorker, e oggi insegna scrittura, sempre al MIT. “I sogni di Einstein” è strutturato come una serie di variazioni sul tema del tempo. Racconti brevi, fantasie che prendono forma nella mente di Einstein, a Berna, nel 1905, mentre lavora alla teoria della relatività. In ognuno, si mostra un mondo in cui il tempo scorre in modo diverso da quello a cui siamo abituati. Il risultato somiglia a certi racconti di Borges, o a “Le città invisibili” di Calvino. Ma con più poesia.
L’ho riletto tutto in una serata. È ancora più bello di come me lo ricordavo.

19 luglio 2007

Vintage Space Art

Non so bene perché (beh, un po' avevo provato a spiegarmelo così), ma io vado matto per cose come questa. (Via il solito Paleo-Future.)

18 luglio 2007

Zoologia celeste

C'è questo progetto che si chiama GalaxyZoo che serve a classificare una milionata di galassie. Sembra strano, ma l'occhio umano è molto più abile di un computer a distinguere una galassia a spirale da una ellittica, e allora si è pensato di cercare aiuto sul web per fare un po' d'ordine nei cataloghi. Ci si registra, si butta un occhio a un'immagine pescata nel database, e si stabilisce che tipo di galassia è, basandosi su semplici criteri di facile apprendimento. E ci si sente tanto utili all'avanzamento dell'astronomia. È l'idea dietro altri progetti a partecipazione diffusa, tipo SETI@home: lì però vi si chiedeva tempo macchina sul vostro computer mentre era in standby. Qui vi si richiede tempo e basta. (Se ne parla anche da Anisotropie.)

17 luglio 2007

Il terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette!

Siccome c'è caso che passino da queste parti (per qualche giorno ancora, poi chissà) un po' di amici (tipo, per dire solo di quelli muniti di blog, lui, lui, lui, lui, lei, lei, lei, lei, lui, lui, lui, lui, lui, lui, lui) conosciuti in un gran bel posto, e siccome magari si sono fatti l'idea che questo è un blog come tutti gli altri e il suo titolare un simpatico buontempone, ho pensato di riequilibrare un po' le cose e ristabilire la giusta serietà, ricordando che Stephen Hawking pensa che se non abbandoniamo la Terra siamo tutti condannati, che ci sarebbe questa cosa dell'Orologio dell'Apocalisse che segna quasi la mezzanotte, che secondo il Panel on Climate Change dal 2008 comincerà a diminuire il petrolio, dal 2020 ci saranno le inondazioni in Europa, nel 2080 se ne andranno i ghiacciai alpini (addio Monte Rosa), e insomma per il 2100 non ce la passeremo troppo bene. Così adesso siete avvisati.

(Che poi citare Hawking in un post mi tiene il blog in tema e automaticamente mi aumenta i contatti.)

10 luglio 2007

Strani mondi

C'è una versione ancora più estrema del colpo di fortuna cosmico cui ho accennato qualche tempo fa. Secondo alcuni punti di vista - che emergono nel contesto della teoria delle stringhe e in particolare della cosiddetta teoria M - non c'è stato bisogno soltanto di un universo enorme, vecchio e pieno di stelle, perché la vita potesse originarsi e attecchire anche solo su un singolo pianeta. Forse, sono stati necessari molti universi, ognuno con leggi fisiche e costanti di natura diverse e casuali, per avere un universo con caratteristiche adatte a ospitare osservatori consapevoli. Un gigantesco sperpero di mondi paralleli, ognuno separato per sempre dall'altro senza speranza di comunicazione, in cui tutte le possibilità hanno preso forma, portando a esiti radicalmente diversi. Universi che sono nati e morti in una frazione di secondo, o che si sono espansi su scale gigantesche in un batter d'occhio, dando vita a distese di spazio fredde e desolate. Universi in cui la carica elettrica dell'elettrone, o il rapporto tra la sua massa e quella del protone, sono stati tali da non consentire nessun tipo di chimica, o in cui la forza nucleare forte non è stata adatta all'innescarsi delle reazioni di fusione che mantengono in vita le stelle. Tra tutti questi infiniti mondi, solo quelli con caratteristiche molto specifiche sarebbero osservabili, perché gli altri non conterrebbero forme di vita intelligente. E allora eccoci qua, a meravigliarci di osservare un universo che sembra fatto apposta per noi: ma la nostra osservazione sarebbe viziata da un errore di prospettiva. Pesci che pensano che tutto il mondo sia fatto d'acqua.

8 luglio 2007

Letture estive

Ci sarebbe questo articolo sul numero di luglio (n. 53) della rivista Le Stelle.

5 luglio 2007

Meglio tardi...

Questo articolo era uscito su La Sicilia il 21 maggio, ma mi era sfuggito. Grazie ad Astroscopio per la segnalazione.

4 luglio 2007

Il tempo e la radiazione di fondo

Mi è stato chiesto più di una volta cosa succede alla radiazione cosmica di fondo con il passare del tempo. Possiamo notare qualche variazione osservandola a distanza di diversi anni? Per chi va di fretta, la risposta sintetica è: no. La risposta meno sintetica è: forse, ma non nella durata di una vita. La risposta più elaborata porta via un po' di tempo e si basa sulla lettura di un paio di articoli appena usciti (questo e questo) che fanno i calcoli accurati.
L'effetto più ovvio è semplicemente quello legato alla diminuzione della temperatura media della radiazione di fondo: ogni volta che le dimensioni dell'universo raddoppiano, la temperatura si dimezza. Quando la radiazione di fondo ha cominciato a viaggiare liberamente nell'universo, 380 mila anni dopo il big bang, la sua temperatura era di circa 3000 gradi, oggi è di 2.725 K e in futuro diminuirà ancora. Ma l'effetto su scala umana è risibile. Tra 5000 anni sarà più fredda di un milionesimo di grado.
L'effetto un po' meno ovvio è che, siccome l'universo si espande, la superficie della fotosfera cosmica da cui ci appare giungere la radiazione di fondo si allontana progressivamente da noi. Il risultato, semplificando parecchio la cosa, è che le macchie nelle mappe osservate, corrispondenti a zone più calde e più fredde della media, appariranno via via più piccole a osservatori futuri. Per avere un effetto visibile a occhio, però, bisognerebbe osservare per miliardi di anni (come avviene in questa animazione simulata). Forse, con apparecchi abbastanza sofisiticati, l'effetto potrebbe essere misurabile tra un centinaio di anni; ma a quel punto la cosa, almeno per me, avrà presumibilmente un interesse trascurabile. Per quelli che ci saranno, tuttavia, una misura del genere potrebbe servire a ottenere informazioni dirette sull'espansione dell'universo.

2 luglio 2007

Brian l'astronomo

Pare proprio che Brian May (sì, proprio lui, il chitarrista di quello che resta dei Queen), di cui era da tempo nota la passione per l'astronomia, faccia sul serio. Prima ha scritto un libro sul Big Bang con Patrick Moore, celebre divulgatore inglese (un'istituzione, una specie di Piero Angela d'oltremanica). Poi ha cominciato a tenere un blog sull'universo per il New York Times. Adesso, dopo aver deciso di riprendere gli studi interrotti a suo tempo per diventare una rockstar, sta per ottenere il PhD (uno vero, non una di quelle lauree ad honorem date a improbabili personaggi da qualche facoltà italiana per puri scopi promozionali).
E insomma, succede pure che il mio collega di vecchia data Andrew Jaffe, che lavora a Imperial College nel gruppo in cui Brian May sta facendo la tesi, sia finito a prenderci una birra.